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“Silence” di Martin Scorsese, ovvero l’anticristica presentazione dell’abiura come atto eroico d’amore

Trama

Il film “Silence” di Martin Scorsese, uscito nelle sale italiane nel 2017, porta sul grande schermo il romanzo omonimo dello scrittore cattolico giapponese Shūsaku Endō ambientato nel diciassettesimo secolo e basato in parte sulla storia di personaggi realmente esistiti come Padre Christovao Ferreira e il gesuita italiano Giuseppe Chiara, su cui Endō ha modellato il personaggio di Padre Rodrigues. Due giovani gesuiti, Padre Rodrigues e Padre Garupe, rifiutano di credere alla notizia giunta loro nel 1633 che il loro maestro spirituale, Padre Ferreira, partito per il Giappone con la missione di convertirne gli abitanti al cristianesimo, abbia commesso apostasia, ovvero abbia rinnegato la propria fede abbandonandola in modo definitivo. I due decidono dunque di partire per l’Estremo Oriente, pur sapendo che in Giappone i cristiani sono ferocemente perseguitati e chiunque possieda anche solo un simbolo della fede di importazione viene sottoposto alle più crudeli torture. Una volta arrivati troveranno come improbabile guida il contadino Kichijiro, un ubriacone che ha ripetutamente tradito i cristiani, pur avendo abbracciato il loro credo.

Critica

Martin Scorsese ha impiegato quasi trent’anni alla realizzazione del suo progetto. Questa lentezza è derivata non solo dalle innumerevoli difficoltà produttive e defezioni del cast (che un tempo comprendeva Daniel Day-Lewis e Benicio del Toro) ma soprattutto dal fatto che, come ha dichiarato lui stesso, il regista non era pronto a cimentarsi in modo così diretto con il tema che gli sta più a cuore: il rapporto dell’uomo con la fede. Un tema che aveva già affrontato esplicitamente in almeno due film: “L’ultima tentazione di Cristo” (1988) e “Kundun” (1997), ma che a ben guardare sottende tutta la sua opera.

Prima di continuare nella mia recensione, invito chi non conoscesse il film a guardarne il trailer:

Se è vero, come è vero, che quest’opera è maturata nella mente di Martin Scorsese per trent’anni, è purtroppo altrettanto vero che questo tempo non gli è servito ad evitare di riproporre la sua personale visione pessimistica della fede cristiano cattolica e della sua testimonianza, che già aveva espresso in “L’ultima tentazione di Cristo”. Anzi qualcosa in lui è maturato, infatti, nel film “L’ultima tentazione di Cristo” la testimonianza estrema di Gesù è comunque data, mentre in quest’ultima sua opera giunge a presentare l’abiura come atto eroico d’amore. Ciò viene fatto in maniera subdola, presentando il percorso che porta il gesuita padre Sebastian,  all’abiura come un cammino di spiritualizzazione della fede nel quale gli aspetti formali della religione perdono il loro valore simbolico e il “vero” senso della fede viene espresso proprio attraverso l’abiura formale dalla propria fede per frenare le torture verso i cristiani. L’abiura viene ad essere vista come il vero “sacrificio” di padre Sebastian. Questo per me è un ossimoro luciferino perché è il ribaltamento del senso del martirio. Esso è infatti proprio la testimonianza fino alla morte. Ed essa non è data per la gloria personale, come vorrebbe far credere il film, ma per l’amore che si ha per Dio e la piena fiducia nelle sue promesse.

Attraverso l’abiura continuata di padre Sebastian viene, inoltre, fatta passare l’idea che la “fede” addirittura si rafforzerebbe, quando resta nella sua forma più pura ed elementare: quando cioè è vissuta e preservata interiormente, in silenzio come sembra avvenga in padre Sebastian. Che inganno! Credo che Gesù risponderebbe a Shūsaku Endō e a Scorsese con le stesse parole con cui ha risposto a Pietro quando questi voleva impedirgli di andare a morire a Gerusalemme: “Via da me Satana!” e pensare che Gesù era disposto al proprio sacrificio nonostante avesse la certezza che esso sarebbe costato la sofferenze di poveri cristiani.

Nel film di Martin Scorsese non si percepisce il cielo, la trascendenza, il Paradiso. Anzi, il suo messaggio è esattamente l’opposto del discorso apostolico di Gesù riportato dall’evengelista Matteo (Mt 10,16-39) nel quale troviamo le seguenti parole incastonate come pietre preziose in una corona:

«Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. […] Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli».  (Mt 10,28.32-33).

Per giustificare l’abiura nel film vengono utilizzate anche falsità storiche, come quando si fa passare l’idea che l’attività missionaria dei gesuiti in Giappone sia stata solo un cieco proselitismo irrispettoso della cultura giapponese (vedi il dialogo tra padre Sebastian e l’interprete). È un falso storico terribile. Vero storico è invece che padre Alessandro Valignano da Chieti promosse l’adozione degli usi e costumi locali da parte dei suoi confratelli, e scrisse un vademecum atto a non offendere le antiche tradizioni giapponesi di cui aveva profondo rispetto, senza però snaturare quelle cristiane. Vero è che i nobili e i politici giapponesi furono affascinati dalla cultura e dalle tradizioni dei gesuiti. Per questo essi furono benvoluti ed apprezzati. La Compagnia di Gesù fu amata e prosperò in Giappone, ricevette in dono perpetuo la città di Nagasaki. I cristiani arrivarono ad essere 300.000. A Nagasaki vi erano 11 chiese cattoliche. Dopo lotte di potere interne giapponesi i rapporti tra il regime e i cristiani cambiarono, ma le nuove leggi inizialmente non vennero applicate dai daimyo, potenti feudatari, molti dei quali erano cristiani. Le cose poi degenerarono, ma non ci fu mai uno “scontro fra culture” e la persecuzione non fu causata da motivazioni religiose, come vuole far credere il film, ma da questioni politiche. All’interno del regime al potere, lo shogunato Tokugawa, si fece largo il sospetto che i gesuiti stessero influenzando la dinastia imperiale per estromettere lo shogunato. Gli shogun videro perciò i cristiani come una minaccia alla stabilità del proprio potere.

Fatta chiarezza sui contenuti del film, è ora possibile accostarvisi con un sano sguardo critico e trarne anche giovamento. Sarà sufficiente discostarsi dalla visione pessimistica della fede propria del regista, prestando nel contempo attenzione agli esempi di vero eroismo disseminati lungo lo sua trama.

Flaviano Patrizi